Quel “pane e cicoria”, detto con disprezzo e amarezza, sottintendeva una vita di povertà e di umiliazioni: e pensare che è l’esatto contrario! Sarà il green mood che si è ormai impadronito di noi; o sarà che chef blasonatissimi ci stanno quotidianamente ricordando come i cibi della tradizione siano un inestimabile patrimonio culturale ma Sua Maestà la cicoria si sta, finalmente, godendo la sua rivincita. Da autentica regina della tavola, domina in mille versioni grazie anche alle sue molteplici varianti.
Cresce, spesso, spontanea e, come tutte le erbe edibili amare, è un portentoso toccasana per l’organismo: ricchissima di fosforo, calcio e vitamina A, dal fegato ai reni fino all’intestino, non v’è organo che non benedica le taumaturgiche virtù della cicoria, di recente ampiamente magnificata anche come afrodisiaco.
Lo sapevano bene i greci, che la usavano come erba medica e le riconoscevano proprietà depuranti e antinfiammatorie: già Galeno, infatti, la indicava come dotata di virtù medicamentose. Gli egizi, invece, se ne servivano per mitigare i dolori dell’emicrania mentre nel nord Europa era considerata un’erba dalle magiche capacità, consacrata alle divinità che sovrintendevano la salute.
Insomma, paese che vai, cicoria che trovi. E’ cicoria il radicchio, che diventa rosso un paio di settimane dopo essere stato raccolto; così come, della medesima specie, sono l’indivia, la catalogna, la scarola, le puntarelle e così via.
Comune nella sua diffusione, non v’è cucina regionale che non trovi il modo di santificarne l’uso ed il sapore: a Roma, è una pietra miliare delle specialità locali, ripassata in padella con aglio e peperoncino, tanto la che regione Lazio ne ha riconosciuto la tipicità inserendola nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT), anche se nella particolarità cicoria di catalogna frastagliata di Gaeta – le puntarelle, insomma. Altrettanto fa la regione Veneto, inserendo la cicoria nei disciplinari per i prodotti agricoli di qualità verificata.
A zonzo per la penisola, però, di volta in volta, la si trova preparata con aggiunte di formaggio grattugiato oppure acciughe o, ancora, pangrattato. In Abruzzo la si celebra con i fagioli, Puglia, Calabria e Sicilia ne sottolineano il sapore deciso mixandolo alla dolcezza delle fave e delle favette.
Quando, poi, arriva la cooking star, ecco che l’erbetta amara tanto vituperata viene accostata ad ostriche e mela verde (la propone a Matera lo chef Vitantonio Lombardo) o con lo gnocco di patate cotte sotto la cenere e capriolo (Enrico Recanati a Loreto) o insieme all’astice all’arancia ( la proposta di Alberto Fol a Venezia) o, ancora, nei tortelloni di ricotta con cicoria ripassata e mortadella brasata di Bruno Barbieri (4). Insomma, un figurone assicurato, esattamente come nel caso delle ghiottole, cicoria, ricci di mare e uvetta sultanina, un primo che strapperà applausi dal primo all’ultimo boccone.
Quel che forse non tutti sanno è che la cicoria va benissimo anche come fine pasto: lo ricordano bene i nostri nonni perché, durante la guerra, il caffè era assolutamente introvabile e veniva sostituito ad una bevanda ottenuta dalla radice della cicoria. In verità, però, l’idea viene da lontano: durante gli embarghi imposti da Inghilterra e Stati Uniti verso Napoleone, si cominciò a sostituire al caffè questo surrogato a base di cicoria che, però, poi finì nel dimenticatoio per essere rispolverato negli anni tra il ‘40 ed il ’45.
Di buono, il caffè di cicoria, ha che non contiene caffeina ma vitamine, sali minerali e fibre. E il sapore amaro è garantito: provare per credere!